Michael C. McCarthy
Il miglior consiglio che abbia mai ricevuto sulla leadership universitaria è stato questo: “Soprattutto, sii consapevole di quello che non sai”. Mi è stato dato da una dirigente universitaria esperta, che ne aveva viste tante. In effetti, sorrise quando mi diede il consiglio. Ho sempre sospettato che il suo sorriso riflettesse la frequenza con cui vedeva i membri delle amministrazioni, dei consigli e delle facoltà presumere più del dovuto.
“Sappi quello che non sai”. Personalmente, era un monito per me contro l’eccessivo bisogno di dimostrare il mio valore e la tentazione di cercare di essere il più intelligente. Era una parola di cautela contro la fantasia di pensare di poter portare in un’organizzazione un piano o un programma di trasformazione che sarebbe inevitabilmente fallito perché non era fondato su una visione o una realtà condivisa. Più in generale, e soprattutto, mi ha ricordato quanto abbiamo bisogno gli uni degli altri.
Nel corso degli anni, ho fatto parte di consigli di indirizzo, sono stato membro di molte facoltà e ho fatto parte di diverse amministrazioni. Ho pensato spesso ai suoi consigli quando le persone si esprimevano con sicurezza su ogni tipo di argomento. Io stesso sorrido internamente quando le brave persone mostrano molta più fiducia di sé che una reale competenza. La forza delle affermazioni è un pessimo sostituto della profondità della comprensione.
Spesso mi sono chiesto cosa ci vorrebbe per rendere la nostra comprensione più completa. Almeno una delle ragioni dei sistemi di governance condivisa è che consentono a persone con un’ampia gamma di competenze e sfere di comprensione di contribuire al benessere di un’intera istituzione. Ma questo non accade se le persone dimenticano che ci sono cose che non conoscono o che conoscono solo in parte.
Il consiglio di conoscere ciò che non si conosce può essere collegato a un’idea presente in antichi testi teologici. Nell’anno 412, sant’Agostino scrisse una lettera a una delle donne più ricche dell’Impero romano. Parlando della preghiera, Agostino mostra consapevolezza di sé: “C’è in noi una certa ignoranza appresa (docta ignorantia), per così dire – un’ignoranza che impariamo dallo Spirito di Dio, che aiuta le nostre infermità”.
Docta ignorantia, o “dotta ignoranza”, è un’espressione utilizzata in tutto il Medioevo per suggerire i limiti della conoscenza umana, soprattutto di fronte ai misteri divini. Per gli individui, tuttavia, la dotta ignoranza è una virtù che possiamo coltivare. L’ignoranza in sé, ovviamente, non è una virtù. Non lo è nemmeno l’ignoranza voluta, che distoglie intenzionalmente lo sguardo da certe verità che possono essere indesiderate o scomode per i propri scopi. Ma l’autentica autoconsapevolezza della propria ignoranza? Questo è un dono che può, in effetti, portare alla comprensione e persino alla saggezza. Potrebbe anche essere un dono in grado di migliorare i sistemi di governance condivisa, la cui efficacia dipende dal senso di umiltà di tutte le persone coinvolte.
Il business dell’educazione gesuita
Diversi anni fa ho partecipato a un ritiro con un gruppo di docenti di ruolo a tempo pieno, condividendo le nostre speranze come accademici in una particolare università. Praticamente tutti esprimevano una forte affinità con la nostra missione, ma c’erano anche molte cose che ci preoccupavano. Ci siamo ritrovati a parlare dei fallimenti morali che percepivamo nell’istituzione di cui facevamo parte. Per esempio, abbiamo giustamente riconosciuto che ci affidavamo troppo a docenti a contratto, il cui compenso era troppo basso rispetto al lavoro svolto.
E sebbene amassimo il nostro lavoro di docenti in un’università gesuita – con la sua enfasi sulla giustizia sociale e sullo sviluppo dell’intera persona degli studenti a cui avevamo il privilegio di insegnare – credevamo che per avanzare davvero in questa missione avremmo dovuto avere classi più piccole, un carico di insegnamento ridotto e periodi sabbatici più frequenti.
Il consenso a questa affermazione è stato forte e immediato – e per una buona ragione. Solo in un secondo momento ho iniziato a considerare alcune questioni più preoccupanti. Per esempio, i modi più probabili per ridurre il nostro carico di insegnamento e avere più anni sabbatici sarebbero: a) avere classi molto più numerose (il che ridurrebbe, presumibilmente, la nostra efficacia nello sviluppo della persona nella sua interezza); b) aumentare le tasse scolastiche (il che limiterebbe la nostra accessibilità o indebiterebbe maggiormente gli studenti); o c) fare maggiore affidamento su docenti a contratto.
Non è che quello che volevamo non fosse buono. Né mai affermerei che i docenti non debbano sostenere la necessità di ottenere questi beni. Ciò che mi ha turbato è la scarsa consapevolezza – e ancor meno la reale conoscenza – delle realtà finanziarie che consentono il successo della nostra missione.
Molti docenti non si sentono a proprio agio al pensiero che le università siano aziende e si sentono a disagio di fronte alla minaccia di “diventare un’azienda”. Eppure, qualsiasi istituzione delle dimensioni e della complessità della maggior parte delle università gesuite è un’azienda. Ci aspettiamo che operino bene, come fanno le imprese, proprio perché beneficiamo di buone pratiche aziendali.
Avendo avuto esperienza di consigli e amministrazioni, ho imparato ad ammirare le capacità di coloro che tengono insieme queste operazioni complesse, date le molte tensioni e la gamma di interessi che ogni università deve affrontare. E come membro di una facoltà mi vergogno un po’, francamente, degli atteggiamenti che io stesso ho avuto a volte nella mia carriera – di non considerare l’acume commerciale o la competenza o la buona volontà di molti colleghi non accademici, compresi gli amministratori fiduciari, i membri degli uffici economici e delle risorse umane, oppure degli sportelli per gli studenti – per non parlare di tutto il personale che fa funzionare gli edifici di un’università. Spesso ho giudicato molti di questi colleghi come parte della “bolla amministrativa” che sottrae risorse ai risultati accademici. E anche se penso che spesso ci siano un po’ di bolle in tutte le università, questo non è affatto esclusivo dei dipartimenti non accademici, né la loro eliminazione necessariamente permetterebbe le cose che sogniamo.
Nella misura in cui crea un sistema di controlli ed equilibri, una certa tensione tra le facoltà, le amministrazioni e i consigli direttivi è davvero un’ottima cosa. Finché non ci perdiamo nelle nostre piccole orbite; ed è in questo momento che dobbiamo ricordare che ci sono cose che non sappiamo.
Il business dell’educazione gesuita
La maggior parte delle università ha molto da imparare da eccellenti pratiche commerciali adottate in luoghi diversi dall’istruzione superiore. Eppure, in quasi tutti i consigli che ho incontrato, durante la discussione di un argomento complesso e controverso, arriva un momento in cui si mette in scena il seguente atto: un membro del consiglio, spesso una persona di grande successo e con una lunga storia nell’istituzione, manifesta la propria perplessità ciò che è in questione e afferma che, se si presentasse la situazione in questione, “la gestirei nel modo seguente…”. Ciò che segue nell’ellissi è di solito la descrizione di un atto di potere, come il licenziamento di un dipendente sgradito, che l’oratore spesso paragona a un individuo o a una sottosezione del corpo docente.
Di solito ci sono molte cose che non vanno quando si inizia ad affrontare così i problemi; questo anche se, ancora una volta, la maggior parte delle università ha molto da imparare dalle migliori pratiche aziendali.
Vorrei suggerire tre punti da considerare. In primo luogo, l’università in cui un individuo fa parte dei consigli di indirizzo non è cosa sua. Anzi, in molti casi si tratta di un’istituzione che ha preceduto la loro attività di un centinaio di anni e che, per grazia di Dio, sarà ancora in piedi molto tempo dopo che la loro attività sarà giunta al termine. È una grande fortuna che membri qualificati dei vari consigli universitari si interessino attivamente alle università gesuite, ma tali suggerimenti come se queste ultime fossero di loro proprietà sono raramente utili.
In secondo luogo, il “business” in questione è un istituto di istruzione superiore, con obiettivi, strutture e processi molto diversi da quelli con cui la maggior parte dei membri dei consigli di amministrazione ha familiarità. Sebbene decisioni esecutive, ad esempio, siano appropriate nelle università e talvolta necessarie, una leadership collegiale e che si muove pazientemente attraverso le crisi è quasi sempre più efficace di un’azione dall’alto verso il basso.
In terzo luogo, non troppo dietro il discorso che ho qui presentato c’è un sottile desiderio di micro-gestire un’amministrazione. La tentazione non è innaturale nemmeno per i membri dei consigli che sono a loro volta dirigenti di successo, ma crea problemi reali a lungo termine. A suo modo, il consiglio di “sapere ciò che non si conosce” è particolarmente importante per i membri dei consigli universitari direttivi per i quali il lavoro e i modi di procedere dei membri della facoltà sono praticamente sconosciuti. Nel settore dell’istruzione superiore, il progresso è lento, spesso molto più lento che nel contesto delle aziende private, le cui strutture dirigenziali consentono cambiamenti rapidi per stare al passo con il mercato.
Un’economia più lenta presenta dei valori unici. I membri dei consigli universitari devono affidarsi alla qualità e alla competenza di docenti e amministratori esperti – ed evitare così la tentazione di micro-gestire l’università stessa. Inoltre, devono ricordare che lo scopo di una università è l’educazione. Questo sarà particolarmente importante quando saranno sottoposti a pressioni da parte dei loro amici, preoccupati che la pallacanestro maschile non sia arrivata alle Final Four, o che vogliano portare avanti altri progetti che possono essere piacevoli ma non sono fondamentali per la missione dell’università stessa.
Il business dell’educazione gesuita
Nel corso degli anni ho visto tra i colleghi delle facoltà, dei consigli di indirizzo e degli uffici amministrativi una fiducia maggiore di quanto sia giustificato riguardo a ciò che intendiamo con il termine “gesuita”.
Cosa intendiamo quando parliamo di “educazione gesuita” o di “università gesuita”? In un certo senso, sono giunto a credere che questo termine – cioè “gesuita” (o talvolta “ignaziano”) – funzioni come un test di Rorschach. Ciò che i singoli soggetti “vedono” nella macchia d’inchiostro dice più di loro stessi che dell’immagine che stanno interpretando.
La fluidità del termine è, per molti aspetti, un vantaggio, perché può permettere alle persone di buona volontà di trovare un significato personale in una tradizione religiosa vecchia di 500 anni alla quale altrimenti non sentirebbero di appartenere.
In una riunione di un consiglio a cui ho partecipato una volta, il presidente ha sottolineato l’importanza rimarcare più a fondo la missione e l’identità gesuita ora che il presidente non era più un gesuita. Si tratta, ha detto, del nostro “marchio”, e una volta perso il nostro marchio perdiamo la nostra distinzione nel mercato più ampio dell’istruzione universitaria. (È vero, mi sono detto. Ma non è sempre chiaro se c’è una comprensione condivisa di ciò che rappresenta questa missione e identità).
In un incontro con un gruppo di docenti di un’altra università che ho visitato una volta, i rappresentanti dei docenti hanno sostenuto la “missione gesuita” dell’istituzione in cui avevano trascorso la loro vita, anche se alcuni di loro hanno espresso il loro ateismo. Per loro “università gesuita” significava un luogo impegnato nell’educazione liberale, nella cura personale degli studenti e nella giustizia sociale (Ok, mi sono detto. Ma non è particolarmente chiaro come questo differisca da molti altri eccellenti college e università degli Stati Uniti). Tutto ciò rende merito alla flessibilità di questo termine comune e al bene sociale che tale flessibilità consente. Mi chiedo però se ci sia un limite a ciò che i nostri riferimenti all’educazione gesuita (non diversamente da quelli alla “democrazia americana”) possono tollerare prima di rompersi o diventare privi di significato. Non nego l’importanza che si attribuisce al “marchio” o ai valori educativi per i quali i miei colleghi di facoltà sono impegnati. Tuttavia, l’assenza di un impegno genuino a imparare di più e dell’umiltà necessaria che accompagna tale apprendimento solleva delle domande. Molti di noi, nelle istituzioni gesuite, sono a rischio di una sottile forma di appropriazione culturale? O è meglio che alcune istituzioni si esonerino dalla pressione di essere ancora gesuite?
Ai tempi in cui c’erano molti gesuiti nelle istituzioni gesuite c’era sempre una comunità umana riconoscibile che in qualche modo serviva da punto di riferimento. In qualche modo la “educazione gesuita” era definita dalla totalità di ciò che essi rappresentavano e per cui si impegnavano.
Non credo che un’università gesuita richieda la presenza di gesuiti per adempiere alla propria missione e identità. Né sto suggerendo che esista un significato originale e puro di “educazione gesuita”, che dovremmo cercare come se fosse una sorta di forma platonica.
Ma ritengo improbabile che le istituzioni possano rimanere gesuite ancora a lungo se non c’è un’effettiva comunità identificabile di persone (nel corpo docente, nell’amministrazione e nel consiglio) che possano fungere da garanti credibili del significato.
Qualche anno fa ho partecipato a una riunione di un consiglio in cui uno degli amministratori fiduciari riferiva su un ritiro per i membri dei consigli finanziari delle università gesuite a cui aveva partecipato. Ciò che mi colpì del suo resoconto fu il tono. Parlava dell’educazione dei gesuiti come di una radice che stava solo ora scoprendo. Ed era una scoperta personale. Ha notato che il motto dei gesuiti (a maggior gloria di Dio) era qualcosa a cui non aveva mai pensato, ma che in qualche modo ora vedeva come centrale per ciò che eravamo come università. Che cosa significa, si è chiesto, concepire il nostro lavoro come un’intenzione di dare maggior gloria di Dio? Cosa significano queste parole: “a maggior gloria di Dio”?
Questo amministratore fiduciario ci invitava a muoverci verso un nuovo luogo, una nuova profondità, che andava oltre le nostre autoassicurazioni, le nostre posizioni ben fondate e le polemiche fin troppo familiari nelle università. E sembrava qualcosa di fresco e vero, fondato come era su uno spirito di umiltà.
Nel contesto dell’istruzione universitaria gesuita, sapere ciò che non si sa non è solo un importante prerequisito per la governance condivisa. Nella sua forma più profonda – quella della docta ignorantia – è una disposizione di apertura all’orizzonte profondo (che alcuni chiamano Dio) a cui punta in primo luogo tutta l’educazione gesuita.
Michael C. McCarthy è un gesuita statunitense, vice-rettore della Fordham University di New York dal 2016 al 2022, anno in cui è diventato preside della Scuola di Teologia del Boston College.
Pubblicato sulla rivista online “Conversation on Jesuit Higher Education” (5 settembre 2024). Un sentito ringraziamento al prof. James McCartin della Fordham University di New York, Direttore del National Seminary on Jesuit Higher Education, per il sostegno dato all’avvio della collaborazione tra la rivista dell’Istituto G. Toniolo “Scritture&Pratiche” e la rivista “Conversation on Jesuit Higher Education” patrocinata dal National Seminary.
Alcuni anni fa scrissi un contributo per un’opera collettiva che titolavo “Universitas semper riformanda”. Dalle conclusioni:
Il fenomeno delle riforme dell’Università evidenzia come non bastino né progetti articolati né norme chiare e definite. Nemmeno le competenze e le qualità personali sono sufficienti ad un cambiamento che possa essere duraturo. Ciò che conta è lavorare sui ‘dispositivi’ (cfr. Foucault). Il punto focale per un cambiamento è dato dalla disponibilità delle persone a mettersi in discussione e a confrontarsi tra loro. Il tutto richiede la disponibilità ad un cambio culturale, che rinunci a pensare che una riforma calata dall’alto possa generare un cambiamento così radicale in un’istituzione quale è l’Università e in generale tutta l’alta formazione . Pare di ritrovare la grande attualità di un presupposto individuato dal sociologo francese Michel Crozier (1979) che scriveva il volume: On ne change pas la société par décret (Non si cambia una società per decreto). Il rischio è quello di una credenza, infondata e insostenibile, che esistano atti magici che generano cambiamenti nelle organizzazioni.
Se prevale la volontà di ‘risolvere’, di uscire velocemente da quelle situazioni che sono sentite come pesanti, è inevitabile che si faccia ricorso ai soliti e noti pensieri, agli schemi già collaudati, nell’incapacità di trovare strade e soluzioni innovative. Perché ciò possa avvenire, serviranno spazi di relazione e coinvolgimento di tutte le componenti dell’Università, con particolare attenzione alle figure intermedie che conoscono il funzionamento delle unità lavorative, conoscono in prima persona le questioni connesse alla didattica e alla ricerca e possono coinvolgersi nei processi decisionali apicali.
Tutto questo alla luce del fatto che il capitale umano e la conoscenza sono il vero patrimonio dell’Università, anche in un’epoca di parsimonia, nella quale occorre fare costantemente dei conti.